Fiatamlet

Ho udito che delle persone colpevoli, assistendo ad una rappresentazione, a causa dello stesso artificio messo in scena, furon così turbate fin nel profondo dell’anima, da confessar pubblicamente e senza indugio i loro crimini. La rappresentazione del dramma sarà la cosa con cui coglierò in trappola la coscienza del re. William Shakespeare, Amleto, atto II°, scena seconda.

All’alba di sabato 25 gennaio 2003 nella sua villa della collina torinese moriva l’avvocato Giovanni Agnelli. Quasi tutti, giornali, televisioni, sociologi ma anche gente comune, dissero che era morto un re. Un’ora dopo la morte una riunione di famiglia sanciva l’investitura al "trono" del fratello Umberto. Un perfetto incrocio tra Shakespeare e Dinasty. La morte dell’"Avvocato" ci libera dal rapporto odio-amore con il padrone per antonomasia, con la personificazione del capitale, con Agnelli finisce davvero il fordismo, il torinesismo gramsciano della classe operaia. Un sigillo tombale apposto ad una storia chiusa ed irreperibile. Proprio da quella morte nasce l’idea di una messa in scena teatrale che prendendo spunto dall’Amleto di Shakespeare racconti la fine di un’epoca, ma anche del funerale dell’industria automobilistica e della Fiat, la fine di un modello di lavoro, di produzione di una classe operaia come motore, per più di un secolo, della storia di questa città fabbrica. Tra le vecchie fabbriche abbandonate della periferia industriale della città un attore, Beppe Rosso, e un sociologo, Marco Revelli, faranno da "guida" in questo viaggio nella Torino post-industriale del nuovo secolo, cercando di ritrovare una memoria, in quei luoghi, di un lavoro che non esiste più. Ponendo dubbi e domande Beppe Rosso sentirà le testimonianze di molti rappresentanti della cultura e della politica della città, ma coinvolgerà nella messa in scena dell’Amleto anche un gruppo di operai messi in cassa integrazione in questi ultimi mesi dalla Fiat e da altre fabbriche. Armando Ceste